[…] Partito verso le due da Marchiennes, l’uomo camminava a passi affrettati, rabbrividendo sotto la giacchetta logora di cotone e le brache di velluto; impacciato da un pacco avvolto in un fazzolettone a quadri che si stringeva contro e mutava spesso di fianco per ficcare in tasca le mani intirizzite che la sferza del vento scorticava. Nel suo capo vuoto di operaio senza lavoro e senza tetto rimuginava un unico pensiero: la speranza che col sorgere dell’alba il freddo si farebbe sentir meno.
Camminava così da un’ora quando, a due chilometri da Montsou, scorse a sinistra, come sospesi a mezz’aria, rosseggiare tre fuochi, simili a bracieri che ardessero all’aperto. Subito esitò; poi, tant’è, non poté resistere alla tentazione di scaldarsi un momento le mani.
Il sentiero incassato che prese gli sottrasse i fuochi alla vista. Ora l’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di paratia di grosse tavole che costeggiava una strada ferrata; a sinistra un argine erboso oltre il quale si distinguevano in confuso dei tetti: una borgata di case basse, uniformi […] un tozzo agglomerato di edifizi, di dove si slanciava il camino d’una fabbrica. […].
Ah, una miniera! Presentarsi? per sentirsi dire di no? L’uomo si sentì riprendere dall’avvilimento. Invece di dirigersi verso il fabbricato, si decise a salire sul terrapieno, sul quale ardevano, in bracieri di ghisa, i tre fuochi che aveva avvistati per primi e che servivano a far luce agli operai nel loro lavoro e a riscaldarli.
I terrazzieri dovevano aver finito il turno da poco, perché stavano sgombrando lo sterro. Già i manovali avviavano i trenini sulle rotaie che correvano sui cavalletti e presso ogni fuoco si scorgevano ombre umane occupate a ribaltare berline.
– Buon giorno, – fece, avvicinandosi a uno dei bracieri.
Colui che aveva salutato voltava le spalle al fuoco; era un carrettiere; un vecchio vestito d’un maglione violetto, con in capo un berretto di pelo di coniglio; il suo cavallo, un grande cavallo fulvo, aspettava, fermo come un macigno, che si scaricassero i sei vagoncini che aveva trainato sin lì. Il manovale addetto alla manovra di scarico, un ragazzone di pelo rosso, sfiancato, non mostrava fretta: manovrava la leva così fiaccamente che pareva dormisse. E qui in alto il vento soffiava più impetuoso che mai; una tramontana ghiacciata che investiva con la violenza d’una falciata.
Il vecchio rese il saluto.
Vi fu una pausa. Avvedendosi dello sguardo diffidente dell’altro, il nuovo venuto si affrettò a presentarsi – Mi chiamo Stefano Lantier, meccanico… Non ci sarebbe lavoro per me, qui?
Ora, in luce, mostrava ventun anno; bell’uomo, bruno, piuttosto smilzo ma d’aspetto robusto.
Rassicurato, il carrettiere scosse il capo:
-Da meccanico, no… Ancora ieri se ne sono presentati due inutilmente. No, no.
Lasciata passare una raffica che mozzava le parole in bocca, Stefano, indicando la macchia scura del fabbricato lì sotto:
-È una miniera, non è vero?
Questa volta, a impedire all’altro di rispondere, fu un impeto di tosse che lo strangolò. Quando poté sputare, lo sputo lasciò sul terreno imporporato dal braciere una chiazza nerastra.
– Sì, una miniera; il Voreux. Ed ecco, là, le case operaie… – e tendeva il braccio a indicare nella notte la borgata di cui l’altro aveva intravisto i tetti.
S’era finito di scaricare; da sé, senza che il carrettiere avesse neanche da schioccare la frusta, il grosso cavallo fulvo ripartì, camminando tra le rotaie e trainando pesantemente la berlina vuota, il pelo arruffato sotto una nuova raffica; mentre il vecchio gli si metteva dietro, armeggiando a fatica le gambe irrigidite dai reumatismi.
Ormai, agli occhi del giovane, il Voreux aveva perso il suo aspetto fantastico. Indugiandosi a scaldarsi le mani scorticate dal freddo, ora Stefano riconosceva la tettoia incatramata del capannone della cernita, il castello del pozzo, lo stanzone del macchinario per l’estrazione, la torretta quadra della pompa di eduzione. La miniera, pigiata a quel modo in una piega del terreno, coi suoi tozzi fabbricati in mattone, col camino che ne sporgeva come un corno minaccioso; aveva l’aria malvagia d’un animale ingordo, appiattato lì per divorare gli uomini. Contemplandola, pensava a sé; all’esistenza di vagabondo che da otto giorni menava in cerca di lavoro; si rivedeva nelle Officine delle Ferrovie dove lavorava, il giorno che aveva schiaffeggiato il suo capo. Scacciato da Lilla, scacciato dappertutto, il sabato prima era arrivato a Marchiennes, attrattovi dalla speranza di trovar lavoro in quelle ferriere; ma nulla: né alle ferriere, né da Sonneville. La domenica l’aveva passata nascosto tra le cataste di legname d’una fabbrica di carri, donde poc’anzi – quella stessa notte alle due – un sorvegliante l’aveva scoperto e scacciato. Non aveva più un soldo né un cantuccio di pane: a che seguitare a battere le strade, senza una meta, senza neppure un luogo dove ripararsi dalla tramontana?
Sì, ora la vedeva bene; era proprio una miniera. Le rade lanterne rischiaravano il locale delle macchine: l’improvviso schiudersi d’una porta gli aveva permesso di intravedere, in un lampo accecante, i fuochi delle caldaie. Ora si spiegava tutto; anche lo scappamento della pompa, quel lungo affannoso soffio incessante che si sarebbe detto la respirazione strozzata del mostro.
L’addetto allo scarico dei vagoncini, occupato a schermirsi dal freddo, non aveva neanche alzato gli occhi su Stefano; e questi già si chinava a raccattare da terra l’involto cadutogli e si disponeva ad andarsene, quando una tosse stizzosa gli annunciò il carrettiere di ritorno. A poco a poco si vide il vecchio emergere dall’ombra, seguìto dal cavallo fulvo che trainava altre sei berline colme.
– Ci sono delle fabbriche a Montsou?
Il vecchio sputò nero, poi rispose con una voce che il vento lasciava appena udire:
– Oh mica sono le fabbriche che mancano! Bisognava essere qui tre o quattr’anni or sono! Tutte le fabbriche lavoravano; non si trovavano uomini; non s’era mai guadagnato tanto… Ed ecco che ora si ricomincia a stringere la cintola… Uno strazio da queste parti! si licenziano le maestranze, le fabbriche chiudono una dopo l’altra… La colpa non sarà forse sua; ma perché mai l’Imperatore va a battersi in America? Senza contare che le bestie muoiono di colera, tale e quale come i cristiani.
Toccato questo tasto, tutti e due, a frasi smozzicate per via del vento che portava via le parole di bocca, presero a lamentarsi.
Stefano raccontava tutti i passi che da una settimana faceva inutilmente per trovare lavoro: bisognava dunque crepar di fame? presto per le strade non si vedrebbero che accattoni. Il vecchio gli dava ragione; sì, non poteva che finir male; non era permesso, perdìo, gettare tanti cristiani sul lastrico.