MA LA SCUOLA PIACE?

Se la scuola non piace a nessuno, un motivo c’è: non stimola la curiosità e mortifica i talenti, inscatolando le menti. Ma cambiare si può: così il libro “Creative Schools” raccoglie tutti i buoni esempi di scuole innovative nel mondo. E propone la via da seguire all’insegna della personalizzazione

Che la scuola abbia (più di) un problema non è una novità. Non prepara adeguatamente per il mondo del lavoro (basti vedere i livelli di disoccupazione giovanile), i tassi di abbandono sono altissimi e nelle classifiche mondiali gli studenti dimostrano gravi lacune persino nell’alfabetizzazione di base. Con conseguenze devastanti in termini economici, culturali e sociali.

Secondo Ken Robinson, educatore ed esperto di pedagogia britannico, però, la scuola ha un problema più grave degli altri, un problema che li sottintende tutti: uccide la creatività. E così facendo pone un freno allo sviluppo mentale e sociale degli studenti, impedendo loro di eccellere in ciò per cui sono portati. Esattamente il contrario di quel che l’istruzione dovrebbe fare, ovvero «consentire agli studenti di comprendere il mondo intorno a sé e i propri talenti, così da diventare individui realizzati, proattivi e compassionevoli».

Per spiegare come questo succeda, e per risolvere il “problema dei problemi”, Robinson ha scritto un libro intitolato Creative Schools: The Grassroots Revolution That’s TransformingEducation. Un saggio dal linguaggio semplice ma molto eloquente che elabora nel dettaglio tutti i limiti del settore dell’istruzione odierna, e soprattutto propone le soluzioni per superarli attraverso una serie di buoni esempi a cui guardare. Il cambiamento, infatti, deve avvenire su tutti i livelli del sistema dell’istruzione, e soprattutto deve venire dal basso: «Non importa quanto il curriculum di studi sia dettagliato o quanto evoluti siano i test di valutazione; la vera chiave per la trasformazione dell’istruzione sta nella qualità dell’insegnamento», dice l’esperto. Perciò la scuola, a partire dagli insegnanti, dovrebbe capire, supportare e promuovere soprattutto quello che interessa ai ragazzi.

Ma partiamo dalle basi. Nel mondo dell’istruzione (e non solo) si è diffuso un falso mito per cui si presuppone che i bambini nascano con diversi gradi di intelligenza, e per questo alcuni vanno bene a scuola ed altri no. Quelli intelligenti andranno all’università e troveranno lavori ben pagati, mentre gli altri prenderanno brutti voti e faranno mestieri manuali o a basso reddito.

Secondo Robinson, però, questo non è assolutamente vero. «Tutti nasciamo con dei grandissimi talenti naturali, ma alla fine del percorso di istruzione molti li perdono, perché la scuola non ha dato valore ai loro talenti, o addirittura li ha stigmatizzati», dice l’esperto.

Tutto questo, per quanto ingiusto e insensato sia, però, succede per un motivo ben preciso:il sistema scolastico è costruito secondo una logica “fordista” dove l’obiettivo è di produrre diplomati in serie: stessi contenuti e obiettivi per tutti, stessi standard di valutazione, stesse turnazioni tra le materie nell’arco della giornata.

Il problema? Le persone non sono tutte uguali, non tutte le attività o materie scolastiche si prestano alla standardizzazione, e soprattutto la scuola non è un’azienda. Così, più che promuovere le attitudini degli studenti e aiutarli a crescere, l’istruzione sembra essere volta a inscatolare le menti per riempirle di quante più nozioni possibili, mettendo gli studenti in competizione per qualcosa (il voto) di meramente simbolico e neutralizzando la loro curiosità e voglia di imparare.

Non stupisce quindi che per la maggior parte dei ragazzi la scuola sia un peso, e un peso tale da causare spesso sofferenza psicologica e crolli dell’autostima. Mentre statisticamente ciò che più detta il successo degli studenti sono la motivazione e la loro stessa aspettativa.

Secondo Robinson, tutto questo può però cambiare. Come? Implementando una logica esattamente opposta rispetto a quella fordista, e cioè personalizzando l’istruzione. «Ciò non significa che non debbano esserci dei contenuti di base da trasmettere», avverte l’esperto. Tutt’altro: significa riconoscere che l’intelligenza si sostanzia in cose diverse, significa dare la possibilità agli studenti di sviluppare i propri interessi e le proprie attitudini, adattare l’orario rispettando il ritmo di apprendimento e valutarli in modo da supportare il loro progresso personale.

Troppo bello per essere vero? In realtà, molti di questi cambiamenti sono già in atto, e Robinson fornisce un gran numero di esempi a supporto di queste buone pratiche. Il passaggio che si è avuto a livello sistemico dall’acquisizione di conoscenze a quella di competenze è già una buona cosa, per esempio. Ma ancora non è abbastanza: agli insegnanti dovrebbe essere lasciato lo spazio per operare in maniera più vicina e personale con i propri studenti, metterli in condizione di incuriosirsi e di imparare davvero. E di diventare creativi, unendo l’immaginazione alla capacità di implementare nuove idee. «La creatività non è il contrario della disciplina», precisa Robinson. «Al contrario, in ogni campo la creatività richiede un’approfondita conoscenza dei fatti e un alto livello di competenze pratiche».

Così, per esempio, a Los Angeles Rafe Esquith ha deciso di “insegnare come se avessi un incendio in testa” perché durante un esperimento si era adoperato così tanto per aiutare una studentessa da non accorgersi che i suoi capelli avevano preso fuoco. Così sono gli insegnanti che sanno davvero accompagnare e ispirare i propri studenti nell’apprendimento. Il messicano Juárez Correa, invece, fa lavorare i ragazzi rigorosamente in gruppo, e le lezioni iniziano sempre con una domanda aperta. Joe Harrison, di Manchester, infine, punta sulla “Slow Education”, una metodologia che prevede un apprendimento personalizzato e in verticale, in profondità, piuttosto che in orizzontale. La lista di esempi che il libro porta a suffragio della sua tesi è infinita. E si tratta di qualcosa che ogni scuola può fare. Basta partire dalle cose semplici. La metodologia della flipped classroom, per esempio, può essere molto utile per stimolare gli studenti e consentire loro di avere un approccio attivo; oppure, piuttosto che somministrare agli studenti i soliti test a risposta multipla, si dovrebbe puntare sulla creazione di portfolio e di progetti. E così via.

Naturalmente, non si tratta di un cambiamento che può avvenire dalla sera alla mattina. E per poter avere luogo tutti gli attori devono essere coinvolti, dalle famiglie ai presidi, oltre agli insegnanti. «Per una serie di ragioni, politiche, culturali ed economiche, il sistema scolastico è tra quelli che più tendono a preservare lo status quo», dice Robinson. Ma è possibile cambiare, a patto di avere una visione del futuro, la convinzione che il cambiamento sarà per il meglio, ottimismo verso la propria capacità di svilupparlo e fiducia nel vedere i risultati auspicati.

“Creative Schools” è un libro che non si rivolge solo agli insegnanti, ma a tutti coloro che hanno un interesse nel mondo dell’istruzione. Dalla scuola siamo passati tutti, ma a quanti piaceva davvero studiare? Imparare dovrebbe essere prima di tutto un divertimento: se le buone pratiche contenute nel libro di Robinson fossero implementate su larga scala, i benefici sociali di una tale rivoluzione sarebbero incalcolabili.

Tratto dal sito https://www.linkiesta.it