D’Annunzio, La pioggia nel pineto

dalla raccolta Alcyone, (1902-03).

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.

Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.

E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.

Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.

Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Questa poesia si trova nella raccolta Alcyone del 1903. Il componimento è composto da quattro lunghe strofe.
D’Annunzio scrive versi irregolari, di varia lunghezza, spesso legati l’uno all’altro, altre volte interrotti e frammentati da una punteggiatura ripetuta.
Il testo è costruito su un intreccio complesso di suoni della natura che si mischiano e vengono esaltati dalla pioggia che cade sul poeta e sulla sua amata.
Gabriele D’Annunzio descrive se stesso ed Ermione, la sua amata, che vengono sorpresi da un temporale estivo mentre si trovano in un pineto: i due cominciano a correre senza meta, mentre la pioggia si riversa su tutto il paesaggio, dando nuova vita ed energia alla natura circostante. La situazione assume i toni di una favola, di una magia.
D’Annunzio, da subito, invita la sua donna a tacere, in attesa di un prodigio, di un miracolo: la trasformazione della natura in un’armonia misteriosa, la trasformazione dei loro corpi in elementi della natura.
In questa visione strana, il bosco sembra possedere una voce che non è umana, ma che, misteriosamente, risulta comprensibile. Le gocce ripetono ossessivamente un ritmo musicale, un’armonia affascinante; la pioggia si riversa sul paesaggio e ricopre ogni cosa, ogni pianta, ogni foglia.
La melodia, che riempie lo spazio, diventa una musica seducente capace di parlare con il poeta e con tutti gli esseri, dalle cicale ai pini, dai pini ai mirti, fino ai ginepri.
Tutto rinasce in una vita nuova e canta, quasi fosse un’orchestra dove gli strumenti sono le foglie, il verso delle cicale, le cortecce, il gracidare della rana, il muoversi del mare e le gocce scroscianti del temporale.
I due protagonisti si trovano invischiati, immersi in questa sinfonia della natura, musicata dalla pioggia che batte più o meno forte, più o meno fitta, più o meno vicina. Tutto dei due umani è ricoperto dall’acqua: non solo “i volti”, “le mani ignude”, “i vestimenti”, cioè gli abiti, ma anche gli stessi “pensieri” sono penetrati dalla caduta prorompente della pioggia. D’Annunzio, incredibilmente, arriva ad immaginare un’incredibile metamorfosi in pianta da parte di Ermione: il suo volto bagnato diventa “molle di pioggia” come le foglie, le sue chiome “auliscono”, cioè profumano, come le ginestre.
Nell’ultima strofa la trasformazione diventa magica: le gocce sono lacrime sul volto di Ermione, la pelle non è più bianca, ma “virente”, cioè verdeggiante, e viene chiamata “scorza”, cioè corteccia; il cuore assume l’immagine di “pesca”, cioè di frutto, e gli occhi sono “polle”, cioè fonti d’acqua; i denti vengono paragonati a “mandorle acerbe” e la stessa vegetazione sembra si impossessa dei due amanti che corrono pieni di vita nel pineto, avvolgendo i loro “malleoli”, cioè le caviglie, e “i ginocchi”.
Ma tutto ciò è reale? D’Annunzio stupisce per la sua padronanza stilistica: la sua capacità di immergersi in questo temporale di suoni è impressionante e coinvolgente. Tuttavia è lo stesso poeta a ricordarci, sia all’inizio che alla fine, come forse tutto non sia che “una favola bella che ieri m’illuse, [e] che oggi ti illude”. Quello del poeta, dunque, non rimane altro che un sogno grandioso e possente, ma che, in fondo, rimarrà per sempre un sogno.