Questa poesia si trova nella raccolta Alcyone del 1903. Il componimento è composto da quattro lunghe strofe.
D’Annunzio scrive versi irregolari, di varia lunghezza, spesso legati l’uno all’altro, altre volte interrotti e frammentati da una punteggiatura ripetuta.
Il testo è costruito su un intreccio complesso di suoni della natura che si mischiano e vengono esaltati dalla pioggia che cade sul poeta e sulla sua amata.
Gabriele D’Annunzio descrive se stesso ed Ermione, la sua amata, che vengono sorpresi da un temporale estivo mentre si trovano in un pineto: i due cominciano a correre senza meta, mentre la pioggia si riversa su tutto il paesaggio, dando nuova vita ed energia alla natura circostante. La situazione assume i toni di una favola, di una magia.
D’Annunzio, da subito, invita la sua donna a tacere, in attesa di un prodigio, di un miracolo: la trasformazione della natura in un’armonia misteriosa, la trasformazione dei loro corpi in elementi della natura.
In questa visione strana, il bosco sembra possedere una voce che non è umana, ma che, misteriosamente, risulta comprensibile. Le gocce ripetono ossessivamente un ritmo musicale, un’armonia affascinante; la pioggia si riversa sul paesaggio e ricopre ogni cosa, ogni pianta, ogni foglia.
La melodia, che riempie lo spazio, diventa una musica seducente capace di parlare con il poeta e con tutti gli esseri, dalle cicale ai pini, dai pini ai mirti, fino ai ginepri.
Tutto rinasce in una vita nuova e canta, quasi fosse un’orchestra dove gli strumenti sono le foglie, il verso delle cicale, le cortecce, il gracidare della rana, il muoversi del mare e le gocce scroscianti del temporale.
I due protagonisti si trovano invischiati, immersi in questa sinfonia della natura, musicata dalla pioggia che batte più o meno forte, più o meno fitta, più o meno vicina. Tutto dei due umani è ricoperto dall’acqua: non solo “i volti”, “le mani ignude”, “i vestimenti”, cioè gli abiti, ma anche gli stessi “pensieri” sono penetrati dalla caduta prorompente della pioggia. D’Annunzio, incredibilmente, arriva ad immaginare un’incredibile metamorfosi in pianta da parte di Ermione: il suo volto bagnato diventa “molle di pioggia” come le foglie, le sue chiome “auliscono”, cioè profumano, come le ginestre.
Nell’ultima strofa la trasformazione diventa magica: le gocce sono lacrime sul volto di Ermione, la pelle non è più bianca, ma “virente”, cioè verdeggiante, e viene chiamata “scorza”, cioè corteccia; il cuore assume l’immagine di “pesca”, cioè di frutto, e gli occhi sono “polle”, cioè fonti d’acqua; i denti vengono paragonati a “mandorle acerbe” e la stessa vegetazione sembra si impossessa dei due amanti che corrono pieni di vita nel pineto, avvolgendo i loro “malleoli”, cioè le caviglie, e “i ginocchi”.
Ma tutto ciò è reale? D’Annunzio stupisce per la sua padronanza stilistica: la sua capacità di immergersi in questo temporale di suoni è impressionante e coinvolgente. Tuttavia è lo stesso poeta a ricordarci, sia all’inizio che alla fine, come forse tutto non sia che “una favola bella che ieri m’illuse, [e] che oggi ti illude”. Quello del poeta, dunque, non rimane altro che un sogno grandioso e possente, ma che, in fondo, rimarrà per sempre un sogno.